Summer

Jul
29
2016
Milan, IT
Assago Summer Arena
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Sting seduce Milano: la recensione del concerto di Assago...

 

Scattano in piedi al primo accenno di “Message in a bottle”. Sono pochi: gruppi di due, tre, massimo quattro persone che s’alzano dalle sedie e cominciano a ballare. Li guardo meglio: sono tutti over 40. Magari non hanno apprezzato la citazione di “Dancing with the moonlit knight” dei Genesis, però quando arrivano i classici dei Police e di Sting solista s’accendono eccitati. Un concerto del musicista inglese, oggi, è questo: un greatest hits inframmezzato da qualche pezzo solista meno noto e un paio di cover. L’80% della scaletta è composta da quelli che gli anglofoni chiamano crowd-pleaser. A questo serve questa specie d’appendice al Back to Bass Tour che ha già toccato l’Italia tre anni fa: a cantare in coro "Be yourself, no matter what they say", a tenere i ritmi sincopati dei vecchi pezzi dei Police, ad applaudire e farsi applaudire da un pezzo di storia del pop.

 

Reduce dal tour nordamericano con Peter Gabriel, che ha lasciato in eredità in scaletta una cover di “Shock the monkey” e la citazione dell’attacco di “Selling England by the Pound” prima di “Message in a bottle”, Sting si è esibito a Roma, Firenze e ieri sera all’Assago Summer Arena. Divertito, rilassato, incline a parlare in italiano, ha dato al pubblico quel che il pubblico voleva: un riassunto della sua carriera fornito da una band di formidabile bravura. Dopo il set di apertura di Joe Sumner, accompagnato dal percussionista e dalla corista della band di papà, Sting parte in quarta con una versione rock di “Every breath you take” e la cantabile “If I ever lose my faith in you”. "Ecco una vecchia canzone: sono pazzo di te", dice prima di attaccare “Mad about you”. Tutto come da copione. Fin troppo.

 

E insomma, tre anni dopo le prime esibizioni in Italia del Back to Bass, lo spettacolo di Sting è risaputo. E fin qui, ci può stare: il pubblico gradisce. La cosa lievemente deludente è che l’inglese non sfrutta a pieno il talento dei musicisti, ovvero Dominic Miller (chitarra), David Sancious (tastiere), Peter Tickell (violino), Vinnie Colaiuta (batteria), Rhani Krija (batteria, percussioni) e Jo Lawry (cori). Ci vogliono pezzi come “Driven to tears” e “When the World Is Running Down, You Make the Best of What’s Still Around” perché la musica s’infiammi. Le esecuzioni dei grandi successi sono sempre perfette, anche piene di spunti, ma raramente travolgenti. Ed è un peccato perché questo è un gran gruppo e per almeno metà del concerto non lo dà a vedere. È un’auto che può raggiungere i 300 km/h e che Sting guida a 150.

 

Qualche piccola sorpresa c’è. Come la cover di “Shock the monkey”, che però è freddina, e la citazione dei Genesis. O la versione di “The hounds of winter” con protagonista la voce effettata e carica di eco di Lawry. O ancora, il groove di “So lonely”, dall’esordio dei Police. Dopo un intermezzo di pezzi soft, si arriva al finale di “Roxanne” che la band porta a spasso nel rock, nel reggae, nel dub, nella fusion, per poi mescolarla con “Ain’t no sunshine” di Bill Withers. Sting suona “slappando”, cerca linee ora morbide, ora funkeggianti, imbraccia sempre il basso tranne che per il finale di “Fragile”, alla chitarra. "Grazie Milano, arrivederci", dice e lascia il palco dopo un’ora e tre quarti di musica.

 

Niente effetti speciali: solo musica. E con un repertorio e una band così non ci si può lamentare. Sting è uno che alterna dischi di nicchia, nei quali si distanzia dal pop, e progetti in cui mira a compiacere i fan. Il concerto di ieri sera appartiene alla seconda categoria ed è stato pensato ed eseguito come un (bellissimo) esercizio di routine. Noi che non ci accontentiamo mai, vorremmo Sting un po’ meno seduttore e un po’ più imprevedibile.

 

(c) Rockol by Claudio Todesco

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