Paul Simon & Sting al Forum di Milano: il report del concerto...
Prendi due giganti della musica, prendi una manciata di canzoni che hanno fatto la storia e la cultura degli ultimi decenni, prendi due band di classe. Mettile tutte assieme a qualche migliaio di persone. Cosa ottieni? Un gran concerto che è una festa, dall’inizio alla fine.
Prendi due giganti della musica, prendi una manciata di canzoni che hanno fatto la storia e la cultura degli ultimi decenni, prendi due band di classe. Mettile tutte assieme a qualche migliaio di persone. Cosa ottieni? Un gran concerto che è una festa, dall’inizio alla fine.
L’equazione in realtà, non è così scontata - perché Sting e Paul Simon sono amici, sì, e per questo hanno deciso di andare in tour assieme. Ma il cantante inglese e quello americano arrivano da mondi diversi, seppur vicini; due mondi che nel concerto si incontrano a metà strada, grazie alla forza delle canzoni, grazie alla capacità dei due artisti di mettersi in gioco fondendo i rispettivi musicisti e i rispettivi suoni in un gioco delle sedie musicali.
Quando i musicisti salgono sul palco del Forum è tutt’altro che “Late in the evening”, per parafrasare il titolo di una canzone che verrà suonata appunto più tardi. Sono appena le 20: il concerto era addirittura previsto per le 19.30, ma troppa gente era ancora fuori in coda a quell’orario inconsueto, che verrà giustificato dalle lunghezza della scaletta e della serata.
A far la conta dei musicisti ci si perde facilmente: due batterie, percussioni, chitarre, due bassi, tastiere, cori, fiati: sono ben in 14. E poi arrivano loro: Sting ha il fisico magro da ragazzo, esaltato da maglietta e pantaloni attillati, e la barba lunga quasi da hipster, i capelli tirati indietro e giganteggia (a livello di altezza, s’intende), sul piccolo grande uomo Paul Simon, nascosto sotto un cappello.
Già all’attacco si capisce la struttura inusuale dello show. I tour congiunti non sono inediti (Bob Dylan & Mark Knopfler, di qualche anno fa, lo stesso Paul Simon con Bob Dylan, per citare i primi che vengono in mente), ma qua i due musicisti giocano assieme, fondendo le band e separandole di volta in volta: si parte con un set assieme, a cui ne seguiranno due individuali a testa, ognuno intervallato da esibizioni comuni.
La festa comincia subito con “Brand new day” e con quella “Boy in the bubble” le cui parole suonano più che mai attuali vedendo la marea di telefonini e schermi alzati: “These are the days of miracle and wonder/This is the long-distance call/The way the camera follows us in slo-mo/The way we look to us all”. Confesso che mi ci sono messo anche io, provando a fare un paio di micro-streaming su Periscope, la nuova app di Twitter.
Poco dopo Sting piazza un set decisamente “vecchio stile”, che dimostra che è infinitamente meglio quando fa pop-rock diretto, senza perdersi in madrigali, arrangiamenti sinfonici, dischi invernali o musical marittimi. “So lonely” chiama in piedi per la prima volta il pubblico,“When the world is running down” ricorda i trascorsi jazzati (con uno spettacolare assolo di David Sancious alle tastiere), e così via fino a “Walking on the moon”. Simon torna per una “Mrs. Robinson” forse un po’ sbilenca, ma sempre emozionante: le voci dei due funzionano meglio sul terreno comune della canzone più intensa e meno ritmata: bello il duetto su “Fragile” ed emozionante quello finale su “Bridge over troubled water”. Il ritmo lo mette Simon con la sua band, nei suoi set, giocando con i generi musicali del mondo, come sempre, dallo zydeco ai suoni africani, dal Brasile al country al blues (stupenda la coda di “Hearts and Bones” con “Mystery Train” e “Wheels”). Il repertorio è così “all killer, no filler” che persino pezzi stupendi (e perfetti in questo contesto come variazione) come “Desert rose” di Sting finiscono per sembrare minori, anche se non lo sono.
In comune, Sting e Simon hanno la bella abitudine di riarrangiare le canzoni, cambiandone la struttura, ma lasciandole perfettamente riconoscibili e cantabili: stupenda, per esempio, la coda soul di “Ain’t no sunshine” dentro “Roxanne”, o i tanti tocchi raffinati degli arrangiamenti delle canzoni di Simon.
E, in tutto questo, il pubblico canta. E balla. E non sta seduto in platea, ma va spesso sotto il palco, in un balletto con la security: all’attacco di uno dei classici, ci si sposta sotto; dopo qualche canzone si viene rimandati indietro a sedere, come si confà ad un pubblico adulto, che questa sera non ha però voglia di essere tale, soprattutto quando c’è da cantare il “lailalai” di “The boxer” o “Message in a bottle”. Un altro classico, la gente ritorna sotto, e poi viene rimandata via. E così fino alla fine del concerto.
Che arriva dopo più di 30 canzoni e quasi tre ore, con quattro brani assieme, tre classici che più classici non si può (“Cecilia”, “Every breath you take” e una “Bridge over troubled water” cantata magistralmente), più una cover finale degli Everly Brothers, senza band. Solo due voci, e due chitarre, e una canzone.
Sarà pure un’operazione nostalgica - ma la musica e il pubblico hanno bisogno di questo: serate di grandi canzoni, grandi voci, e di artisti che si autocelebrano sì, ma si mettono anche in gioco, e si divertono e divertono noi che stiamo in platea. Vorremmo vederne di più, di tour come questi.
(c) Rockol by Gianni Sibilla