Back to Guitars: Sting al Fabrique di Milano, la recensione del concerto...
Non è lo Sting dei Police. Non è quello della band allargata con violino e tastiere che abbiamo visto l’estate scorsa. E non è nemmeno, neanche per sogno, il cantante col pallino per il folk o l’amante del jazz. Quello che s’è visto ieri sera al Fabrique di Milano è il musicista pop-rock che il pubblico ama, quello dei grandi successi dei Police, quello di un disco “57th & 9th”, che mima la grandezza di un tempo e che viene proposto per il 70%. È la band che fa la differenza, il tipico quartetto rock: due chitarre, quelle di Dominic e Rufus Miller, padre e figlio, il basso di Sting, la batteria di Josh Freese, uno che ha suonato con chiunque, dai Nine Inch Nails ai Guns n’ Roses.
Lo show non aggiunge nulla a quel che sappiamo di Sting, ma che importa: a 65 anni, l’ex cantante dei Police tiene ancora benissimo il palco e dimostra una volta ancora di sapersi scegliere i collaboratori. Se il tour celebrativo del venticinquennale della carriera solista di Sting si chiamava Back to Bass, questo è una specie di Back to Guitars, anche se lui imbraccia una sei corde giusto per “Fragile”.
Quando Sting sale sul palco, le file fuori dal Fabrique sono ancora belle lunghe. Niente panico: il rocker inglese non inizia il concerto in anticipo, ma introduce l’esibizione del figlio Joe Sumner e prima di lasciargli il palco canta con lui “Heading south on the great north road”, un pezzo sul suo viaggio da Newcastle verso la fama. Dopo una ventina di minuti arrivano gli americani Last Bandoleros, musicisti solidi, sound fra tex-mex country e rock anni ’70.
C’entrano poco con Sting, ma non importa. Anzi, il cantante torna sul palco per cantare con loro “Where do you go?” accompagnato da Dominic Miller e Joe Sumner. È il bello di questo concerto: c’è voglia di suonare, di condividere, di stare assieme. La gente gradisce e alla fine del concerto, al banchetto del merchandise, si ferma per scattare foto-ricordo con i texani. Hanno conosciuto Sting due anni fa, ci dicono, lo trovano un mostro di professionalità.
Nel giro di tre pezzi, Sting ha già vinto: “Synchronicity II” mette in chiaro che questo sarà un concerto molto rock, “Spirits in the material world” non ha bisogno di sintetizzatori, “Englishman in New York” conquista tutti. Difficile sbagliare con questi pezzi, con questa band. E pure “I can’t stop thinking about you” è accolta col medesimo entusiasmo e del resto pare scritta proprio per accordarsi al vecchio repertorio.
Sting canta bene, c’è l’energia che mancava al pur bello e raffinato concerto dell’anno scorso, la voglia di divertirsi suonando assieme è tanta. E il bello di questo quartetto, cui si aggiungono Joe Sumner e i Last Bandoleros ai cori: gli intrecci strumentali, i backup, il suono del basso in evidenza, il drumming dinamico di Freese. Non ci si annoia, insomma, nonostante la scaletta sia tutto sommato prevedibile. Un piccolo brivido lo regala l’introduzione a “Fields of gold” durante la quale Sting canta un estratto da “All along the watchtower” di Bob Dylan.
Dopo “Message in a bottle” arriva l’omaggio a David Bowie, solo che a cantare non è Sting, ma il figlio. Il pubblico intona “Walking on the moon”, urla “So lonely”, si infiamma per “Desert rose”, con raddoppio di percussioni, assolo di chitarra orientaleggiante e purtroppo un loop prerigstrato che stona in un concerto del genere. Poco male: i grandi successi dei Police – sempre gli stessi, ma che roba – mandano tutti a casa felici. “Fragile”, ultimo bis, è dedicata alla “gente di Londra”. Si replica in luglio: il 25 a Cividale del Friuli (Ud) e il 28 a Mantova.
(c) Rockol by Claudio Todesco